“Per uccidere un uomo, non serve togliergli la vita, basta togliergli il lavoro” sosteneva Enzo Biagi. Un tempo la realtà era più semplice: c’erano i lavoratori e i disoccupati. Ma da qualche anno la realtà si è fatta più complessa e una gran parte di giovani e meno giovani ha un lavoro, ma quasi sempre un lavoro precario, che nella maggior parte dei casi significa anche sottopagato.
Qualche giorno fa ad un convegno, dove era stata chiamata ad intervenire per la sua competenza ed esperienza una psicologa, la dottoressa, dopo aver completato il suo ottimo contributo, ci ha confessato di essere precaria da diciassette anni e di avere una collega che lo era da venti. Il lavoro precario sta interessando non solo il settore privato dei servizi e dell’industria, ma anche i pubblici servizi, come la sanità e l’assistenza, facendo scadere la qualità del servizio erogata e la cura del cliente – cittadino.
Il lavoro precario, lo sappiamo, non significa solo stipendio minore e più ore di attività, ma può voler dire pressioni, ricatti, trasferimenti improvvisi e demansionamenti, che consistono nel privare il lavoratore delle mansioni pattuite, adibendolo a mansioni inferiori. In poche parole butti a mare gli studi fatti e le competenze che con sacrificio hai acquisito.
Il lavoro precario rende la vita precaria, da tutti punti di vista. Come compri una casa se ogni tanto ti licenziano così possono riassumerti? Come formi una famiglia e metti al mondo dei figli se non hai certezza del futuro? Come vai via dalla casa dei tuoi genitori se non puoi pagare l’affitto?
Fermiamoci un attimo a riflettere sulla società che stiamo lasciando costruire intorno a noi, senza mai dire la nostra, senza più voce in capitolo. La nostra società è colma di disagio; disagio dei giovani, disagio delle famiglie, dove spesso i genitori pensionati continuano a mantenere i propri figli e lo faranno probabilmente per sempre, disagio dei nonni che sono chiamati spesso ad aiutare figli e nipoti.
La vita precaria può devastare gli affetti, le amicizie e i rapporti con la società intorno a noi, rendendo le persone insicure e infelici. Chi può se ne va all’estero dove molti italiani sono chiamati a rendere più forti e competitivi i paesi che li hanno accolti, nella cucina, nella ricerca scientifica, nell’ingegneria e nell’informatica, solo per fare qualche esempio.
Un fenomeno grave di impoverimento e di spreco del nostro Paese.
I dati Istat del 2017 parlano di aumento dell’occupazione, di 345 mila posti in più, ma a rovinare questi numeri, dice il Sole 24 Ore, sono due trend: i posti sono quasi tutti a termine e i livelli di inquadramento sono per lo più molto bassi. Lo confermano anche i dati Ocse che rivelano che l’Italia è l’unico mercato europeo (insieme alla Grecia) dove la ripresa non ha favorito la crescita di professioni ad alto tasso di qualifiche, soprattutto in ambito tecnico-scientifico. Un’ulteriore conferma arriva dall’Inps che parla di due milioni di posti a tempo indeterminato in meno dal 2015 al 2017, nel nostro paese.
Giuseppe Manzo